LA MITICA “BULLI”

Compie in questi giorni 65 anni – quella che per molti è l’età imagepensionabile – uno dei veicoli più celebri nella storia della motorizzazione moderna, il minibus Volkswagen Transporter, più noto come Bulli. La storia di questa variante ‘mpv’ del Maggiolino nasce in effetti nel 1947, quando l’importatore della Volkswagen in Olanda Ben Pon, osservando nella fabbrica di Wollfsburg il telaio perfettamente piatto del Beetle, schizzò a matita sul suo taccuino la prima idea del Bulli, parlandone poi con l’azienda.
Due anni più tardi, nel 1949, il plant manager della fabbrica Heinrich Nordhoff presentò quattro prototipi di questo strano veicolo: due furgoni lamierati, un combi e un minibus…..
La grande differenza rispetto alla prima idea di Ben Pon stava nella piattaforma: invece di usare quella a trave centrale del Maggiolino, nel Transporter era la scocca portante a sostenere un telaietto posteriore a cui era collegato il gruppo propulsore. Del Maggiolino venivano conservati anche le sospensioni e quasi tutti gli altri organi meccanici.
Nella prima versione il motore di 1,1 litri erogava 24,5 Cv a 3.300 giri e permetteva – nonostante la potenza limitata – di trasportare fino a 8 persone o 750 kg di carico.
La produzione in serie del Transporter iniziò nella Hall 1 di Wolfsburg l’8 marzo del 1950, al ritmo di 10 veicoli al giorno.
Alla fine dell’anno ne erano stati fabbricati 8001, troppo pochi a fronte di una domanda in continua crescita. Il veicolo numero 100.000 uscì dalle catene di montaggio già nel 1954, con una gamma che poteva contare su 30 varianti per passeggeri e merci, compreso quello da campeggio. La capacità della fabbrica di Wolfsburg, saturata dal Maggiolino, non permetteva però di soddisfare le richieste di Bulli (ne venivano prodotti al massimo 80 al giorno) e nel marzo di 60 anni fa venne avviata la costruzione del nuovo stabilimento di Hannover-Stoecken dedicato al Transporter. Il primo esemplare ‘Made in Stoecken’ uscì nel marzo del 1956. In totale di questo iconico veicolo, la cui produzione è stata poi estesa ad altri Paesi (primo fra tutti il Brasile, ultimo luogo di fabbricazione), sono state costruite cinque diverse generazioni per un totale di 11 milioni di unità.

La Storiaimage

La storia del Volkswagen Transporter cominciò, nel 1947, con un prototipo un po’ bizzarro, creato per fare fronte a necessità contingenti e non certo per cavalcare un mercato europeo dell’automobile che negli anni del dopoguerra ristagnava e non lasciava intravedere grandi affari.
Dalle capacità di ingegneri e tecnici dotati di grande spirito di improvvisazione nacque il T1, e con esso una leggenda destinata a fare epoca.
Fu un parto per così dire “spontaneo”, senza la consueta trafila nel reparto di ricerca e sviluppo che ha invece caratterizzato i modelli seguenti, dal T2 al T5.
Un caso assolutamente particolare. Tutto sommato, la storia di un veicolo speciale come il Volkswagen Transporter non poteva che cominciare così.
In principio fu il “Plattenwagen”.
Così veniva chiamato dagli addetti ai lavori l’autocarro semplice e senza fronzoli utilizzato internamente dagli operatori dello stabilimento Volkswagen di Wolfsburg per il trasporto dei carichi pesanti.
L’idea di farne un modello commercializzabile venne a Ben Pon, importatore della Volkswagen per i Paesi Bassi.
Pon trovò quel veicolo, costruito utilizzando gli assali e il sistema di trazione del Maggiolino, estremamente interessante.
Il motore, un 25 cavalli, era montato posteriormente.
Sopra di esso era sistemata la panca del guidatore che era divisa da una paratia dalla superficie di carico.
Un sistema tanto primitivo quanto pratico per i compiti per cui era stato concepito.
Ben Pon tentò subito di ottenere un’autorizzazione dalle autorità olandesi per poter far circolare il “Plattenwagen” sulle strade del suo Paese.
Ma non ci riuscì. Almeno, non al primo tentativo.
Qualche tempo dopo si ripresentò ai funzionari con un blocco da disegno in mano, sul quale aveva tracciato il profilo particolareggiato di un T1 con le sue tipiche caratteristiche tecniche ben in evidenza: cabina di guida avanzata, motore posteriore e, nel mezzo, il pianale di carico.
Quello schizzo convinse, pur se dopo molti colloqui, anche l’uomo che allora guidava i destini della fabbrica Volkswagen di Wolfsburg, risollevandola dalle macerie della guerra: Heinrich Nordhoff.
Fu lui, nel 1948, a dare il via libera alla costruzione del veicolo.
Il primo esemplare del “Tipo 29” (questa la denominazione interna del primo Transporter, basato sul connubio fra la tecnica del Maggiolino e quella degli autocarri), fu realizzato e messo in strada in meno di sei mesi.image
Ma in breve tempo venne ritirato.
Non fu infatti possibile eseguire i test programmati nel modo previsto, in quanto il telaio, che era stato concepito per il Maggiolino, non era adeguato e mancando della necessaria rigidità e resistenza alle torsioni, finiva per trasformare ogni curva in un’avventura dall’esito incerto.
Fu allora sviluppata una scocca autoportante che, nel corso del successivo stadio di test, si rivelò finalmente la soluzione giusta. Tale scocca si caratterizzava per una maggiore robustezza rispetto a quella del Maggiolino, grazie a componenti del telaio realizzati su misura per le esigenze del nuovo Transporter in termini di sicurezza attiva.
Nella primavera del 1950, dagli impianti di produzione di Wolfsburg uscirono i primi Transporter pronti alla messa in strada.
Il motore, da 25 cavalli raffreddato ad aria, era posizionato posteriormente.
Il veicolo – agile, pratico, polivalente e senza pretese eccessive – sfiorava i 100 chilometri orari di velocità massima.
Sulla carreggiata non occupava molto più spazio del Maggiolino, per cui, oltre a fare la sua bella figura nei mercati rionali e nei cantieri, non risultava affatto ingombrante come mezzo per il trasporto.
Ben presto si arricchì di alcuni dettagli “da automobile” che lo resero più comodo ed anche esteticamente più gradevole, diventando bicolore, con il telone avvolgibile e abbellendosi poi di cromo e lustrini: quest’ultimo nuovo look era proprio del bus “Samba”, presentato nel 1951, che divenne la star incontrastata della famiglia dei Transporter.
Da quel momento in poi, il Transporter fu chiamato internamente “Tipo 2” e non più “Tipo 29”.
Sul mercato, invece, fu introdotto come “furgone Volkswagen”.
Tuttavia, tra la gente fu ben presto battezzato con un nomignolo simpatico e destinato a grande successo: Bulli.
C’è da dire che questo soprannome non fu mai adottato a livello ufficiale, in quanto sul nome Bully (seppure differisse per la “y” finale) aveva già il copyright l’azienda di Mannheim Lanz, produttrice di trattori.image
Ciononostante la vox populi non si lasciò intimidire: per la gente il veicolo Volkswagen del tipo Transporter, furgone o bus, era e rimaneva comunque un Bulli.
Questo termine, derivante dalle iniziali delle parole tedesche Bus e Lieferwagen (quest’ultima significa furgone, autocarro per consegna merci) integrate per ragioni di praticità fonetica dalla lettera intermedia “l”, evocava un aggettivo tedesco perfettamente calzante: bullig, vale a dire vigoroso, muscoloso.
Ancora oggi i fan del Bulli si raccontano spesso e volentieri l’origine di questo antico soprannome del veicolo che ha accompagnato da protagonista il miracolo economico tedesco del secondo dopoguerra, diventandone un’icona.
Il furgone Volkswagen motore dell’economia…….

Il miracolo economico tedesco del dopoguerra è indissolubilmente legato a due nomi: Ludwig Erhard, ministro dell’Economia del governo presieduto dal primo cancelliere della neonata Repubblica Federale, Konrad Adenauer, e Bulli, il furgone Volkswagen che si rivelò il veicolo per tutte le evenienze.
Questo binomio segnò in modo particolare la fase dinamica della ricostruzione, che seguì, all’inizio degli anni Cinquanta, alla desolazione del dopoguerra.
Il furgone Volkswagen costituì in quel periodo il partner ideale di tutti coloro che avevano più di 18 anni, possedevano la patente di guida ed erano in grado di intravedere le gratifiche economiche che attendevano quanti lavoravano con impegno e tenacia.
Persone che non stavano con le mani in mano, che non esitavano a darsi da fare e che erano sempre affidabili.
Come il Bulli, appunto.
Le dimensioni ridotte e la capacità di mantenersi ben controllabile anche sui percorsi più difficili, regalarono al
furgone Volkswagen un’aura di indistruttibilità: il Bulli arrivava sempre a destinazione, magari con qualche minuto di ritardo, ma ci arrivava, e con tutto il carico che trasportava.
E tutti vi fecero affidamento: il servizio postale, la polizia, le ferrovie.
Già, anche le ferrovie, perché fu creato addirittura un furgone dal telaio appositamente modificato per viaggiare su rotaia.
E poi le ambulanze, gli automezzi dei vigili del fuoco…
Tutti ricorsero al Bulli, in molti casi sfruttandolo al limite delle sue possibilità e anche oltre il limite, caricandolo all’inverosimile, facendone fumare la frizione, surriscaldare i freni, il motore e così via.
Il Bulli sopportò tutto, diventando il “veicolo che tutto può”, senza concorrenti.
Nella pubblicità rimase sempre un po’ nell’ombra, offuscato dal Maggiolino.
Ma di certo non mancarono le iniziative per ricordare al pubblico le sue particolari doti.
Per esempio, in un’inserzione di tanti anni fa si vede un furgone, debitamente attrezzato e con la luce blu lampeggiante sul tetto, accanto a una squadra di otto vigili del fuoco della piccola stazione dei pompieri di Barmbek.
Il testo recita: “Chi ha fretta, di solito sceglie il Transporter. Sia noi pompieri che tutti quelli che hanno l’agenda che scotta. Perché il Transporter è un furgone unico nella classe degli automezzi da una tonnellata, agile e scattante anche in mezzo al traffico della metropoli. E sempre affidabile”.image
La versatilità del Bulli si rivelò tale da dare addirittura origine a una nuova area del mondo automobilistico,
quella degli allestitori di interni.
All’inizio furono realizzate strutture improvvisate, come ad esempio lo scaffale di legno a tre o quattro ripiani per i pasticceri. Con il passare del tempo, però, queste strutture divennero sempre più professionali e mirate.
Del Bulli sono esistite le variazioni più fantasiose, dal frigorifero su ruote al banco di vendita ambulante.
I furgoni Volkswagen portavano nel dopoguerra le merci più disparate nei luoghi più impensati, in certi casi veicolando indirettamente le storielle locali ad un ritmo persino più rapido del tam-tam delle parrucchiere.
Il Bulli univa le persone e le manteneva in contatto in un’epoca in cui i telefoni erano ancora rari.
In certi casi il furgone fu utilizzato anche sottoterra, nei luoghi dove, nel dopoguerra, si estraeva il sale.
Là il Bulli si rivelò un tuttofare insostituibile: venne impiegato per il trasporto delle persone e delle merci, il traino dei carrelli, il trasporto dei cibi destinati alle mense dei lavoratori e così via.
Con il tempo quei veicoli aggrediti dal sale assunsero sembianze stranissime, che li resero impresentabili alla luce del sole: chi li utilizzava smontava le porte sostituendole a volte con delle catene e toglieva anche i finestrini per far passare almeno
un po’ d’aria nei tunnel sotterranei scarsamente ventilati.
In superficie, alla luce del sole, il furgone Volkswagen rappresentò una realtà per trasportare anche sogni, ovunque, pure là dove il cinema non era ancora arrivato, portando l’eco dei film che spopolavano nella Germania del dopoguerra.
Come “Heidi” o “Il cacciatore della foresta d’argento”.
Il Bulli dunque non fu solo il motore dell’economia, ma anche il Transporter che trasportò la buona novella di tempi migliori.

Tratto da bullimania.it

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